The Drums: tredici anni dopo ciò che è iniziato come una band è diventato il progetto solista di Jonny Pierce. Nel nuovo album “Jonny” (Anti_), Pierce libera l’armadio dai vecchi scheletri e ritrova, attraverso l’isolamento, l’entusiasmo che rese celebre la band.
Sin dall’esordio – con la folgorante “Let’s Go Surfing” e quell’immaginario da Beach Boys che si scontrano con Morrissey -, Jonny Pierce non ha mai fatto segreto della sua adolescenza, passata in una comunità religiosa da cui scappò a soli 16 anni.
Ma nel nuovo album, “Jonny“, Pierce va oltre, raccontando la sofferenza e la solitudine di chi è cresciuto in una comunità religiosa con un padre Pastore, e ne ha vissuto la violenza.
“Jonny” è un disco introspettivo, forse il più personale di Pierce dal suo esordio, e tra riverberi e drum machine ci racconta che anche una bestia come la solitudine può far trovare la giusta via per sopravvivere, insegnando a superare i traumi subiti.
Lo scatto di copertina che abbiamo scelto è il segno di un percorso iniziato dieci anni fa quando Jonny, dopo essersene andato da casa e già cantante consacrato dei The Drums, torna nella sua casa natia. Lo fa di nascosto, una domenica, consapevole che tutta la sua famiglia è a Messa.
In questo momento catartico Jonny si spoglia e comincia a scattarsi una serie di autoritratti completamente nudo, tra cui lo scatto di copertina del nuovo album, una foto che cattura tutta la vulnerabilità di un momento ma che pervade il’intero disco, disarmante e sincero.
Jonny è un vecchio amico di Toh!: lo abbiamo incontrato più volte, e chiacchierarci è sempre illuminante. Lo raggiungiamo via Zoom in una casetta prefabbricata vicino al lago nello stato di New York dove vive dal 2020.
Ciao Jonny come stai?
Bene, sto riposando il mio strambo cervello prima di partire in tour!
Il nuovo album ha una freschezza ritrovata, qual è il clima che ha contribuito alla sua creazione?
Se devo essere sincero, tutti gli album che ho scritto prima del 2020 avevano un’idea di base molto forte. Sapevo cosa volevo, dove andavo e come farlo. Riempivo una caraffa di caffè e ghiaccio, poi bevevo tutto il caffè d’un fiato e cominciavo a scrivere, scrivere e scrivere senza sosta. Aggiungendo così caos a tempi già caotici di per sé.
Scrivevo canzoni così di getto che poi mi chiedevo io stesso da dove fossero uscite. Era un metodo veloce ed efficace per scrivere un disco ma non lasciava traccia in me.
Guardandomi indietro mi sono accorto di come questo metodo aggiungesse ulteriore sofferenza alla mia vita e che non ne avevo proprio bisogno. Era un processo punitivo, un modo di creare duro verso me stesso e che probabilmente in quel periodo era quello di cui avevo bisogno.
Invece questo album ho cominciato a scriverlo dopo aver cominciato un percorso di terapia, ho preso dei funghi magici e ho un piccolo cane di cui ho imparato a prendermi cura.
Sono venuto a vivere in questa casetta nel 2020, quando a New York era tutto chiuso, anzi quando il mondo intero lo fu per il Covid. Era la prima volta nella mia vita in cui provavo questo senso d’immobilità e di solitudine, non era più il mondo che conoscevamo.
Fino alla mia adolescenza sono cresciuto in un contesto domestico molto duro, in una famiglia decisamente non amorevole e in un contesto di molteplici abusi, mio padre era Pastore e la religione dettava legge.
Sono dovuto scappare da quel contesto in cui però ho imparato cosa significa la sopravvivenza sin da bambino. Tutto quello che avevo imparato era a servizio della mia sopravvivenza, quindi una volta scappato di casa ho continuato a correre lungo questa strada, a lavorare duramente e il mio cervello era in continua modalità “combatti o scappa” come se dovessi sempre sopravvivere.
Praticamente vivevi in uno stato di stress continuo…
Assolutamente, ma era l’unico modo per affrontare la vita che conoscevo quindi non avevo modo di capire quanto fosse violento il mio stile di vita. Si dice “sei come un pesce nell’acqua” perché il pesce non sa di essere nell’acqua, essendoci nato dentro.
Così tra tour, studi di registrazione e album ho vissuto in questa condizione caotica fino al 2020, quando tutto si è fermato. I mesi passavano e io ero immerso nella solitudine e nella calma, passeggiavo con il mio cane nella natura, guardavo il lago, e giorno dopo giorno il mio punto di vista si è capovolto e ho finalmente realizzato chi sono realmente, quando non devo sopravvivere ma sono solo me stesso. È stata davvero una rivoluzione per me!
Ho realizzato che la mia felicità, la pace e la tranquillità, stavano nei posti calmi e fino ad ora erano praticamente assenti dalla mia vita. Sono diventato dipendente da questa nuova pace e quanto ho cominciato a pensare all’album, l’unica cosa che sapevo è che non avrei bevuto una caraffa intera di caffè prima di cominciare ascriverlo! Ho disattivato la modalità “Go! Go! Go!”.
Così ho lasciato che le canzoni scaturiressero da me quando erano pronte, senza forzature. Ho preso il mio tempo e se per due mesi non avevo voglia di scrivere non scrivevo.
Se penso a questo album di The Drums, vedo me alle prese con un enorme blocco di marmo ma armato di un piccolissimo martello per scolpirlo; ogni giorno lo cesello un poco qui e un po’ là in quella che si è rivelata alla fine un’esperienza tenera, gentile e amorevole.
Se ascolti l’album dall’inizio alla fine noti questi spazi, che la musica ha dei momenti calmi che gli appartengono. Ho lasciato che riflettesse quello che ho imparato e che stava succedendo nella mia vita, ho lasciato questi respiri profondi e nuovi per me anche nella musica.
Parli molto di gentilezza, ma i testi sono molto diretti e sinceri, senza filtri!
Usavo definirmi ‘drammatico’: dicevo sempre che la mia musica è drammatica, così come la mia presenza scenica e la mia scrittura. Ma un giorno, dopo un’intervista, mi son reso conto che cominciavo a sentirmi a disagio nel definirmi tale.
Mi sono detto, io sto bene e mi sento onesto e sicuro nel raccontare la mia verità senza finire per forza nel lato oscuro. Oggi, quando devo scrivere qualcosa di personale che mi rende vulnerabile, mi sento bene e sono in contatto con il mio cuore: sono vivo!
Quindi ho fatto combaciare il sentirmi così vitale con la tristezza, in fondo si può ballare anche sulla tristezza. Che poi, se ci pensi, oggi siamo circondati dalla violenza, essere gentili ma arrivare al punto è un atto profondamente rock n’roll.
Parlando degli spazi che hai concesso alla musica e al ballare: non mi aspettavo sconfinassi nella techno, mi hai sorpreso!
(ride, ndr) Il mio primo strumento in assoluto è stato un sintetizzatore analogico, avevo 13 anni e mio padre era Pastore in chiesa e usava suonarlo durante le funzioni, quando lo hanno cambiato con uno digitale ho implorato per averlo! Avevo appena scoperto il synth-pop e i Kraftwerk, così ho cominciato a fare elettronica dance, avevo anche recuperato una drum machine.
Questo album rende omaggio al giovane me stesso, a quando stavo male, vorrei che il tredicenne Jonny avesse la possibilità di mettere una delle sue canzoni in questo album. È stato un modo per riconciliarmi con il giovane me.
La musica elettronica è stato il mio primo amore, e vorrei che fosse anche l’ultimo; le cose accadono, non mi sarei mai immaginato che un giorno avrei scritto una canzone sul surf e avuto una carriera come artista indie rock. Quindi non mi stupirebbe se un giorno dovessi fare uno switch scrivendo un album elettronico.
Parliamo della serie di scatti che hai utilizzato sia per la cover del disco che per i singoli che lo hanno preceduto, che storia volevi raccontare?
Ho scattato questi autoritratti dieci anni fa, un amico mi aveva dato una macchina fotografica con una pellicola in bianco e nero e non avevo mai scattato una foto. In quello stesso anno avevo interrotto i rapporti con la mia famiglia, non parlavo più con nessuno di loro perché sono dei religiosi, pieni d’odio, e non mi fa bene averli attorno – ho dovuto lasciarli per vivere meglio.
Così una domenica mi sono messo al volante e mi sono diretto alla casa dove sono cresciuto, sapendo che la mia famiglia sarebbe stata a messa. Sono entrato in casa, mi sono spogliato e ho cominciato a scattarmi foto in tutti i luoghi in cui ho subito dei traumi o sono stato molestato, senza nemmeno saper bene il perché.
Se mi guardo indietro, penso istintivamente che sia stata una reazione assurda, ma poi con cognizione credo che sia stata la volontà di rivendicare il mio potere in uno spazio dove ne era stato totalmente privato. Un confronto malvagio ma bellissimo per me, mi ha fatto sentire potente.
Se poi penso che questi scatti sono di 10 anni fa li vedo come un regalo del giovane me stesso al Jonny che sono oggi. Funzionano perfettamente con il suono e il sentimento del disco, non riesco ad immaginare quest’album senza questi scatti e viceversa.
Quindi per questo motivo hai intitolato l’album “Jonny”, come il tuo nome?
Sì, sono 16 canzoni ed ognuna è una versione differente di me: baby Jonny, Jonny teenager, Jonny adulto, l’odierno Jonny e persino il Jonny del futuro, ma anche la mamma e il papà Jonny! C’è tutta una famiglia di me stesso dentro.
Quando ascolto il disco ci sento la mia anima dentro, quindi l’ho intitolato “Jonny” in un atto di narcisismo salutare, come lo ha definito il mio terapista.
Sei sempre stato aperto nei confronti della tua sessualità, considerando che il tempo storico che stiamo attraversando non è dei migliori. Com’è essere un uomo gay in America oggi?
Mi sento meno sicuro, quando Trump fu eletto le cose cambiarono in peggio per molto tempo, con Obama c’era quest’aria incredibile di libertà tanto che scherzando dicevo:” Non abbiamo più la necessità di fare i Pride!” .
Oggi onestamente non mi sento tranquillo nemmeno in città come New York o Los Angeles, che sono sempre state un paradiso per la comunità gay. Non mi sento più a mio agio a tenere la mano o a dare un bacio in pubblico, non mi sento sicuro ad essere me stesso e sei anni fa non era così, oggi la situazione è peggiorata.
Ma dobbiamo avere il coraggio di rispondere anche se è estenuante, perché nasciamo in una condizione in cui dobbiamo lottare sin dalla nascita. Questo stato di allerta continuo ha un’influenza nefasta sul nostro corpo e sulla nostra salute. È una condizione che un etero non proverà mai che per noi è invece la quotidianità. È profondamente ingiusto, ma incrociamo le dita.
Forse è una mia impressione, ma mi sembra che ci sia qualcosa di speciale che ruota intorno al nuovo album. Che responso state avendo dal vivo?
Il responso che sto avendo mi fa andar fuori di testa, la gente conosce tutte le canzoni anche se l’album è uscito da poco e c’è una connessione con il pubblico davvero speciale che non sentivo da anni. È proprio vero, è come se stesse per accadere qualcosa di nuovo ed eccitante.
I The Drums sono cambiati, sono freschi, hanno imparato: oggi ho una comprensione di me stesso che sono in grado di traghettare al pubblico attraverso il mio corpo.
A proposito di corpo, fai ancora i tuoi inconfondibili balletti sul palco?
C’è una cosa che non tutti sanno: il mio primo amore è stato il ballo, non la musica. Vivevamo accanto alla chiesa di mio padre e ballare è stata la mia prima via di fuga.
Di notte uscivo, mettevo le cuffie del mio diskman con dentro “Homework”, il primo album dei Daft Punk, e ballavo come un pazzo per ore alle 2 del mattino. Mi sentivo in un film lontano dalla realtà.
Cosa hai ascoltato nella tua casetta mentre scrivevi l’album?
L’unica cosa che ascoltavo era questa artista che amo che si chiama Grouper, fa una specie di ambient malinconica e anche dolce. Prendevo i funghi, ascoltavo Grouper e piangevo e ridevo allo stesso tempo. È stata la colonna sonora che mi ha aiutato a connettermi con l’amore più profondo nel mio cuore, a cui non credo di aver mai avuto libero accesso prima d’ora.
Raccontami qualcosa riguardo la tua esperienza con i funghi magici, qui in Italia sono illegali…
Ho provato il microdosing ma durante il lockdown nella capanna ogni due o tre settimane ne assumevo una quantità diciamo generosa per entrate in connessione con il mio profondo essere. Posso dirti con certezza che prima di provarli non sapevo cosa fosse l’amore nel modo in cui lo conosco oggi.
I funghi hanno cambiato il modo in cui vedo, dono o ricevo l’amore. È come se i funghi mi avessero donato le chiavi di qualcosa che possedevo ma che non sapevo come aprire ed ora la porta è aperta!